RITRATTI

«Ogni ritratto dipinto con sentimento è un ritratto dell’artista, non del soggetto», scriveva Oscar Wilde nelle prime pagine de Il ritratto di Dorian Gray. Non sappiamo se questa affermazione rispecchiasse la filosofia estetica dello scrittore inglese o fosse la battuta affidata a un suo personaggio per esigenze di copione; ma, certamente, essa ci consente di polarizzare un atteggiamento conoscitivo ben preciso verso l’estetica del ritratto. In questa prospettiva il pittore prosegue la propria ricerca creativa a prescindere dal soggetto che sta ritraendo, inseguendo le sue ossessioni di artista in modo sostanzialmente indifferente alla realtà fattuale. All’altro estremo dello spettro possiamo collocare un «atteggiamento semplice, obbediente alle cose e perciò umile», ben descritto dalla filosofa Edith Stein nella prima metà del Novecento. A quale di queste due posizioni può essere ascritta la ritrattistica di Pietro Bellini? Possiamo capirlo scorrendo la presente sezione della sua opera. Leggendo i volti, gli sguardi, i gesti raffigurati da Bellini possiamo comprendere che egli avrebbe voluto porsi al centro di un crocevia ideale tra le due polarità sopra richiamate, ma che inclini decisamente verso la seconda di esse. Infatti, per quanto l’autore continui la sua ricerca sui rapporti cromatici pressoché in ogni suo lavoro, la mette però al servizio del soggetto la cui immagine sta traducendo sulla tela. Egli attua con piena consapevolezza l’atteggiamento «semplice e umile» teorizzato dalla Stein, esprimendo così la sua «obbedienza» alle persone che hanno arricchito la sua vita. A molti dei suoi soggetti sono legati ricordi, affetti, passioni e riflessioni la cui esperienza gli ha consentito una vita in prima persona. E Bellini salda il suo debito restituendo a ognuno la breve eternità di un momento sospeso tra il nulla e l’addio.

 

Gaetano Vena